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Storia di un femminicidio calabrese senza colpevoli. Il ricordo di Roberta Lanzino

È il 26 luglio del 1988. In Calabria, le famiglie abbandonano felici la calura delle città verso la costa, raggiungendo il mare, finalmente in vacanza. Roberta Lanzino è una brillante studentessa di diciannove anni, ed è pronta a partire dalla residenza familiare rendese alla volta di San Lucido, un paesino sul versante tirrenico della provincia di Cosenza, dove trascorrerà il mese di agosto insieme ai genitori Franco e Matilde. È in gamba, Roberta. Un’anima pulita. Frequenta l’Università, ha una vita piena e lo sguardo aperto sul mondo. Tanti capelli quante idee. E quando in quel pomeriggio afoso, poco prima delle 17.00, sale sulla sua motocicletta Piaggio e viaggia col vento in faccia, inseguendo il sole, non sa ancora che quello sarà il suo ultimo giorno d’estate.

La storia di Roberta Lanzino rappresenta una pagina buia della cronaca calabrese e non solo. Una trama horror che condensa in sé tutti gli elementi tipici del genere, e che anticipa i risvolti aberranti e anti-umani di tanti altri – oggi innumerevoli – episodi di misoginia: il boogieman lungo il tragitto e il mistero della scomparsa, la violenza brutale e il corpo ammazzato. Il caso Lanzino è stato uno dei più efferati delitti legati al nostro territorio. Una vicenda di femminicidio di forte risonanza pubblica, resa ulteriormente criptica da una ricerca investigativa lacunosa, in parte minata dai condizionamenti di matrice ‘ndranghetista, per la quale, tuttora, la verità è un’omissione e quell’agguato una ferita (una sconfitta, una colpa) che sanguina e ci coinvolge. 

In occasione della Giornata Mondiale della lotta contro la violenza sulle donne – in un momento storico segnato dal dominio della mascolinità tossica, in cui l’appartenenza al genere opposto sembra normalmente valere a sostegno del destino tragico di sopraffazione, odio e morte che troppo spesso ci attende e, ormai soprattutto, nei luoghi dell’amore – scrivere di Roberta è una necessità. Pertanto, proprio alla luce degli accadimenti odierni, il desiderio di ricordarla non scaturisce dalla semplice volontà di omaggiare il fiore rigoglioso che era, in un lampo esistenziale, ma ha a che vedere piuttosto con il bisogno morale di incoraggiare una riflessione su ciò che quella ragazza “interrotta” avrebbe potuto e voluto essere, in un lasso di tempo maggiore. Il senso della memoria non può prescindere, infatti, dal compito assegnatole nel qui e ora della società contemporanea: stimolare un’azione riformatrice concreta, massiccia e culturale, di fronte all’ingiustizia e all’inaccettabilità del fatto che qualcuno abbia scelto e scelga di negare la libertà a una donna, abusandone e uccidendola perché tale.

Storia di Roberta Lanzino: i fatti

Nel suo ultimo giorno d’estate, Roberta si mette alla guida del Sì mentre i suoi genitori la seguono in macchina. Per strada, Franco e Matilde si fermano però a riempire un bidoncino d’acqua a una fontana, e comprano un cocomero pensando, magari, di ristorarsi quella stessa sera, insieme alla figlia, chiudendo in bellezza la prima cena a casa al mare. Qualche minuto di ritardo e la decisione innocente di una sosta saranno fatali, perché la ragazza ha intanto imboccato un percorso interno, meno trafficato e ritenuto più sicuro della Statale 107, e di lì a poco sparirà. La via secondaria è zeppa di biforcazioni, e Roberta si perde in circostanze mai chiarite. Giunti a destinazione, i genitori non la trovano e temono che possa avere avuto un incidente. Le ricerche hanno inizio, intervengono i Carabinieri e si contatta immediatamente l’ospedale. La strada viene battuta in lungo e in largo e, al calar del buio, di Roberta non c’è traccia. La paura impenna quando, alle due del mattino, il suo scooter, intatto, viene recuperato in una scarpata. A quel punto, i coniugi Lanzino ipotizzano un sequestro, data la frequenza dei rapimenti in quegli anni, e si attendono di ricevere una richiesta di riscatto che tuttavia non arriva. All’alba, non distante dal luogo in cui era stato abbandonato il motorino, il corpo di Roberta viene ritrovato senza vita.

Ha il seno scoperto, le sono stati strappati i jeans e gli slip, che giacciono a pochi metri. Ha le spalline appallottolate in gola, il volto tumefatto e il collo tranciato. Una sfilza di tagli su braccia, gambe e addome. Il medico legale dichiarerà che Roberta è stata stuprata, seviziata e infine soffocata. E purtroppo, se il movente è dal primo istante immaginabile, i colpevoli invece non saranno mai identificati. Le testimonianze ricostruiscono i movimenti di Roberta, avvistata in punti diversi della litoranea. La ragazza avrebbe chiesto indicazioni stradali e, secondo alcuni, un uomo a bordo di una Fiat 131 l’avrebbe pedinata. Comunque, i sospetti ricadono presto su una famiglia di agricoltori locali, e gli inquirenti raccolgono indizi schiaccianti contro due fratelli (uno dei quali schizofrenico e già artefice di una carneficina immotivata a scapito di venticinque pecore del gregge) e un cugino. Al processo, i tre vengono poi prosciolti per inconsistenza di prove e, per la difesa, Roberta è la diretta responsabile di quanto è accaduto laddove – allude – si sarebbe addentrata in quel campo isolato per incontrare forse, in segreto, un amico. A causa dei numerosi errori scientifici e giudiziari, il caso si chiude per riaprirsi nuovamente nel 2007, grazie all’emergere di un’altra pista, e terminando, in breve, con l’ennesima avvilente assoluzione.

Cosa resta dopo la morte di Roberta Lanzino

Davanti a un atto di violenza così abominevole, perpetrato con una superficialità sorella del modo fallimentare con cui si è considerato in seguito, le domande restano a mezz’aria, appese a quel famoso concetto di “possibile” che andava fatto e chissà se si è fatto. E se pensiamo allo stato attuale di cose, all’involuzione relazionale e sociale che Roberta non meritava, e che probabilmente in passato risultava difficile pensare nel meraviglioso mondo del progresso, a venir meno non è solo il senso di giustizia. In una società in cui, ogni giorno, può succedere e succede che una donna sia scannata e non ritorni a casa, decade l’idea stessa che ci definisce e giustifica come esseri degni di abitarla.

Franco e Matilde hanno trasformato il dolore e la rabbia dell’irrisolto nel dono nobile di un supporto, coraggioso e diffuso, a tutte le donne (e i minori) in difficoltà. Un anno dopo la tragica morte di Roberta è nata una Fondazione a suo nome, che instancabilmente ha operato e opera a Rende e in Calabria per contrastare la violenza, di qualsiasi tipo e grado, e per promuovere ovunque la cultura del rispetto e dell’uguaglianza. L’impegno dei Lanzino è un contributo offerto alla tutela e alla preservazione della vita notevole, che dà alla loro storia un’enorme dignità e la rende quasi sopportabile nonostante l’amarezza dell’epilogo. Eppure, per quanto di aiuto ed impatto, queste iniziative non bastano. Senza il sostegno di un disegno di legge chiaro, di un programma d’intervento preventivo efficiente, e di un’educazione sentimentale e sessuale appropriata, continueremo a vivere in un ambiente insano e, una come l’altra, a morire, sperando sempre di salvare la pelle alla prossima dopo di noi. Per citare la poesia di Cristina Torres Cáceres diventata virale in questi giorni, come manifestazione di cordoglio social per il femminicidio di Giulia Cecchettin, anche Roberta avrebbe voluto essere l’ultima. Sul perché non lo sia stata, e non lo è mai ancora nessuna, su quello c’è tantissimo da lavorare e subito.  

Cc immagine in evidenza: illlustrazione di Annalisa Grassano