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“La festa del ritorno”: in sala il film sul dramma dell’esodo calabrese

La festa del ritorno, film d’esordio di Lorenzo Adorisio, dal 13 novembre nelle sale italiane e porta, sul grande schermo, il fascino e la maledizione della Calabria rurale degli anni ’70: di una terra che, ieri come oggi, respinge i suoi figli e, tuttavia, li lega e richiama sempre e per sempre a sé. L’adattamento cinematografico del romanzo omonimo di Carmine Abate – co-prodotto da Italia e Francia, con il sostegno di Ministero della Cultura, Fondazione Calabria Film Commission e Lazio International – tematizza infatti una contraddizione fortemente radicata nel territorio, strutturale, che definisce la vita del singolo e della collettività nel segno della frattura, e quindi incide sulla percezione stessa del proprio essere nel mondo. 

La festa del ritorno: trama

Adorisio racconta la storia semplice di una famiglia, appartenente alla minoranza arbëreshë del sud, alle prese con il dramma dell’esodo. Il padre Tullio, interpretato dall’attore reggino Alessio Praticò, parte da un paesino di poche anime alla volta di Parigi, dove lavora come operario di miniera, lontano dagli affetti. L’abbandono forzato della patria d’origine è, però, qui particolarmente sofferto, non solo perché divisivo di un nucleo compatto, ma anche e soprattutto perché è filtrato dallo sguardo innocente di un bambino, il quale restituisce, nel modo più onesto e immediato possibile, la vera essenza traumatica dell’emigrare. Gli occhi del figlio dodicenne Marco (Daniele Procopio) leggono gli eventi, sono lo spazio in cui accadono e si concretizzano le reali conseguenze dell’esperienza paterna dell’andare via per costrizione, e custodiscono pertanto una verità “spicciola” che molto spesso non riconosciamo. 

La partenza di Tullio è una “grinza” nel tessuto della narrazione sin dall’inizio. È l’antefatto di una vicenda che è interessante proprio laddove invece mostra e indaga tutto quello che viene dopo e si nasconde dietro, e che ha a che fare con uno stato emotivo condivisibile da chiunque si trova obbligato (e non può dirsi mai pronto) ad uno strappo “contro-natura”. Il corpicino di Marco che vaga nelle campagne desolate del crotonese in compagnia del cane Spertina, che si disperde nel paesaggio ampio ed impara a difendersi presto dal pericolo, incarna già l’assenza del padre, prima ancora che venga rivelata e senza il bisogno di approfondirne le cause. Il sacrificio dell’uomo si riflette negli equilibri familiari precari, nelle tensioni e nelle incomprensioni inerenti i rapporti tra fratelli, figli e madre, nipoti e nonna. 

Le ragioni dell’espatrio sono accennate, possiamo immaginarle, ma dell’altra vita di Tullio non vediamo che scorci, perché al fondo vuota e perché è sugli effetti della sua scelta, e della separazione che ne deriva, che si vuole riflettere. L’intenzione dell’autore è precisa. Il racconto di Adorisio non è una storia di formazione, bensì la storia della disgregazione intrinseca a quel processo in una terra che non dà la possibilità di averla, una forma; che, rendendo necessaria la rinuncia, condanna al peso della mancanza. 

Un film tra spopolamento e sospensione dell’abitare in una Calabria selvaggia

La Calabria è nel film la dimensione dell’immobile, del ritmo lento, dell’errare senza meta da mattina a sera, del conosciuto che si identifica con il limite. Il ritratto che se ne fa condensa, per certi versi, i tanti luoghi comuni cui si ricorre, nella maggior parte dei casi, quando si vuole giustificarne e promuoverne lo spopolamento. Eppure, al contempo, quella è la Calabria dei ragazzini che corrono indisciplinati per i vicoli e che puoi tenere d’occhio da ogni finestra, dei giochi da tavolo e delle cene coi parenti, dei balletti in terrazza in una giornata di sole e delle polpette inimitabili della nonna. Dei colori e delle tradizioni che uniscono. Il protagonista, perciò, non è tanto un personaggio, quanto un sentire comune, la brama del ritorno da parte di chi va e di chi rimane a casa. 

Sono tantissime le scene in cui il mare è presente e, benché non proprio partecipe dell’azione, salvo che in una sequenza cruciale che segnala il quanto si perde nella lontananza, esso è comunque l’immagine più rappresentativa della malinconia dell’attesa. È l’altrove verso e da cui si guarda aspettando di rivedere qualcuno, l’orizzonte che ci attrae nella misura in cui crediamo di riavere indietro, di essere risarciti, di quello che ci manca: è il luogo dell’andare e del restare insieme, entrambi vincolati al sentimento della nostalgia. 

La festa del ritorno è un’opera prima e, come tale, non è esente da difetti. Ciò nonostante, riesce a problematizzare la condizione esistenziale tipica del calabrese che, essendo nato in un’area geografica “difficile”, sperimenta a un certo punto il trauma della scissione, del percepirsi “a metà”e ancora qua e, viceversa, qua e continuamente – a lungo termine o per tutta la vita. Per Tullio è impossibile “abituarsi ad andare”; è l’emigrato che, con ostinazione, rifiuta di mettere il cuore in valigia. Al contrario, Marco fa fatica a restare; è il mezzo orfano che paga il prezzo di diventare adulto senza di lui. 

Il film racconta dunque di questo modo “monco” di rapportarsi allo spazio e alle relazioni, della ferita di chi, andando o restando, si sottomette alle logiche dei condizionamenti ambientali a scapito del desiderio. Lo fa servendosi dello scenario suggestivo di una Calabria selvaggia – le riprese sono state realizzate nei comuni di Carfizzi, Cirò e Melissa – dove i monti e i mari sono vicini e appaiono distanti, dove l’esigenza di fuggire si scontra con la voglia di abitare la sospensione. Di trattenere, preservare, l’amore.