La canapa, in Italia, è stata utilizzata per secoli. Dall’800 fino agli anni ’50 le maggiori filiere si trovavano al Nord Italia ma è anche vero che una massiccia presenza era in Calabria avendo il clima e i terreni adatti al tipo di coltivazione. Ma come mai tutto questo si è fermato e, soprattutto, è vero che questo prodotto sia stato ostacolato nella nostra regione dal retaggio culturale? Non è proprio così. La canapa e i suoi derivati non sono dei “nuovi prodotti”, ma fanno parte delle nostre origini più di quanto pensiamo. Tutt’oggi, grazie alla svolta ecologica, vi è un ritorno di questo materiale antico anche negli ambienti della moda.
Storia della cannabis in Calabria: una storia di generazioni
Al termine dell’800 era normale acquistare nelle drogherie estratti di canapa indiana proveniente da Calcutta o piccoli sigari di canapa indiana per curare l’asma. Fino a trasformarci, negli anni ’50 nel secondo maggior produttore di canapa al mondo, secondi soltanto all’Unione Sovietica. Le principali produzioni provenivano dal nord dell’Italia, ma anche in Calabria l’utilizzo fu massiccio: cordame, tessuti, carta, e non solo! Dai suoi semi era possibile estrarre un ottimo olio combustibile. Soprattutto in campo farmaceutico le sue applicazioni furono vastissime, terreno sondato fin dai tempi degli antichi greci e romani.
Il professore Raffaele Valieri, medico napoletano e ricercatore promettente di fine diciannovesimo secolo, fu il primo ad usare diffusamente la canapa comune e a raccomandarne l’uso medico. La vera innovazione di Valieri fu nell’aver individuato le stesse proprietà benefiche della Indica anche nella canapa locale, indicando la differenza solo nella quantità dei principi attivi. In particolare, questo intraprendente medico napoletano, sperimentò la cura della canapa per isterismo, insonnia, enfisema polmonare, emicrania, nevralgie e tosse. Il suo obiettivo pare fosse soprattutto portare giovamento ai diseredati dei vicoli di Napoli.
Assai curiosa è l’ipotesi etimologica del perché oggi li chiamiamo ‘spinelli’: pare che, l’allora soprintendente dell’Ospedale degli Incurabili, il conte Francesco Spinelli di Scalea, concesse a Raffaele Valieri di inaugurare nel retro del laboratorio di chimica dello stesso ospedale, un Gabinetto d’Inalazione, una vera e propria stanza del fumo. E più avanti nel tempo, parliamo del XX secolo, nelle nostre campagne era comune (fino all’arrivo delle “sigarette americane”, il cui utilizzo denotava un cambiamento di status sociale) l’impiego della canapa in sostituzione del tabacco: era un segno di povertà e divenne un lontano ricordo con l’avvento dell’industrializzazione e l’ascesa del Dio Denaro.
Solo negli anni ’60 arrivò il colpo di grazia di una battaglia a senso unico che venne sferrato dalle Nazioni Unite nel 1961, quando si sottoscriveva la “Convenzione Unica sulle Sostanze Stupefacenti” entrato in vigore solamente nel 1975, in cui si dichiarò che la canapa sarebbe dovuta sparire dal territorio in un arco di tempo di 25 anni (art. 49 – 2.f), perciò “illegale” a partire dal 1995. Già le prime iniziative proibizioniste da parte dei grandi poteri risultarono fallimentari. Ma perché? Perché vi fu un aumento di traffici illeciti e, di conseguenza, di persone che si rivolsero ai mercati illegali. La necessità ludica e/o curativa ha condotto il consumatore ad entrare in contatto con la criminalità, provocando dei danni nel tessuto sociale.
Con la legalizzazione della cannabis la ‘Ndrangheta perderebbe una grossa fetta di guadagno?
Sono decenni che il movimento proibizionista rimarca l’utilità di sottrarre il mercato delle sostanze psicotrope al monopolio della criminalità̀ organizzata; si tratta di una recente ignoranza, ahinoi, dura a morire e di preconcetti ostinati, che si fa fatica ad abbattere, nonostante il dibattitto contemporaneo e i dati di alcuni Stati americani (ad esempio Canada e Uruguay). Ancor peggio, è la strumentalizzazione delle questioni legate al proibizionismo: interviste, informazioni, opinioni di personaggi stimati, manipolate per degli scopi, nella maggior parte dei casi, prettamente politici.
Ma si tratta di ‘giocare sporco’ per condurre l’opinione pubblica nella direzione prestabilita oppure ci si documenta realmente? Il più delle volte capita che sia controinformazione, altre, semplicemente, opposizione. I proibizionisti insistono con l’allarmismo mistificatorio sull’erba «proibita», ma se la coltivazione fosse liberalizzata, regioni come la Calabria potrebbero beneficiarne perché́ godono del clima ideale per la sua coltivazione, ma, soprattutto, la ‘ndrangheta perderebbe una grossa fonte di guadagno. Eppure, è proprio il procuratore Nicola Gratteri, l’antimafia, a osteggiare questa proposta. Secondo Gratteri la legalizzazione della cannabis favorirebbe maggiormente il mercato nero. Questo perché ci sarebbe una controfferta da parte dei trafficanti che abbasserebbero il proprio prezzo rispetto a quello della cannabis legale rendendo, quindi, il loro prodotto più “appetibile”.
E nonostante il protocollo per l’uso dei derivati della cannabis indica in Italia sia una realtà̀ effettiva da oltre un quindicennio, si fatica a trovare dei medici in Calabria disposti a prescriverla o dei farmacisti disponibili e capaci di confezionarne i diversi preparati. Dopotutto la classe medica italiana è ancora formata dai discepoli dei discepoli di Giovanni Allevi, che nel 1931 pubblicò il credo del regime in materia di droghe: “Gli Stupefacenti, contrabbando e traffici clandestini, tossicomanie e difesa della razza”.
La cannabis in Calabria oggi: le nuove aziende e filiere
Ma, negli ultimi anni, il territorio calabrese si è vestito di verde cima, vedendo nascere numerose realtà agricole destinate alla coltivazione diretta della Canapa Light. Questo, soprattutto, grazie a giovani imprenditori che hanno deciso di prendere in mano il dibattito contemporaneo e farne realtà, non solo chiacchiere da bar. È nata anche l’Associazione Canapa e Filiera che ha l’intento di promuovere e favorire aziende che abbiano voglia di investire sulla cannabis in Calabria e Sicilia.
Negli ultimi anni sono nate diverse aziende tra cui:
The Weed Sisters è un’azienda giovane tutta al femminile che ha come missione la diffusione della cultura della canapa; le loro coltivazioni sono outdoor, non usano pesticidi né fertilizzanti chimici. Perciò si parla di un prodotto 100% naturale e biologico.
JURE Farm ha sede nel Parco Nazionale della Sila, a 1300 m, su terreni di alta qualità agronomica, in un territorio privo d’inquinamento. L’azienda, oltre che della coltivazione vera e propria, si occupa di produzione e distribuzione di piantine da seme certificato, consulenza sulla produzione, lavorazione, certificazione, manipolazione, trasformazione, esportazione e commercializzazione dei fiori.
Calabrone che nasce nel 2019, a Filogaso (VV), con lo scopo di incrementare e riconsolidare la filiera di produzione e commercializzazione della Canapa Sativa L. che vedeva, negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, l’Italia leader nel mondo per produzione, seconda solo alla Russia.
E per entrare nell’ottica di queste nuove realtà, cliccando a questo link potrete vedere il documentario #SONOUNACIMA di Cecilia Vaccari, che insieme all’associazione no-profit Le Cime, propone uno strumento di divulgazione sulla cultura della canapa, senza incappare in fraintendimenti e falsi miti. La storia di tre ragazzi calabresi che grazie a un amico recuperano un podere abbandonato e iniziano a coltivare l’orto ed una piantagione di canapa, avvicinando diverse realtà e persone a questa pianta.