Dal naufragio avvenuto durante la notte di domenica 26 febbraio davanti la spiaggia di Steccato di Cutro è passata una settimana e, mentre le onde del mar Ionio continuano a restituire alla terra dei cadaveri, a non fermarsi sono anche le polemiche sul tema. Su tutte, quelle relative ai soccorsi: non era davvero possibile intervenire?
La ricostruzione dei fatti, al momento, racconta che durante la sera del sabato un aereo di Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) fotografa e segnala l’imbarcazione, rilevando al suo interno una massiccia presenza di persone. A questo punto, si muovono dalla costa crotonese i mezzi della Guardia di Finanza ma non quelli della Guardia Costiera: si decide, quindi, di intraprendere soltanto un’operazione di polizia e non un’operazione di salvataggio. Le condizioni del mare non permettono alle vedette della GdF di raggiungere la barca colma di migranti, che qualche ora dopo, in balia delle onde, si infrange contro il fondale e si ribalta, a poche decine di metri dalla costa.
Si sta già tentando di chiarire le responsabilità sul caso e, si spera, si farà luce sugli avvenimenti. Quel che è certo, però, è che le dichiarazioni del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, secondo il quale la soluzione a tragedie come questa può essere soltanto quella di fermare le partenze, dimostrano, oltre che un tentativo di colpevolizzazione delle vittime, quantomeno, una scarsa conoscenza della questione.
Il percorso seguito da questi migranti è tutt’altro che nuovo: è detto “rotta del mediterraneo orientale” e raccoglie prevalentemente uomini, donne e bambini provenienti da Afghanistan, Siria, Iraq, Pakistan e Bangladesh. Partendo dalla Turchia (paese che l’Unione europea finanzia affinché gestisca i flussi migratori), questi si muovono via terra dalla Bulgaria o, più spesso, via mare, con un unico obiettivo: raggiungere l’Europa. Si stima che nel 2022 in Calabria siano sbarcate attraverso questa rotta 18.000 persone, prevalentemente in clandestinità. Con ogni probabilità, data la decisione di non attivare un’operazione di ricerca e soccorso, sarebbe stato così anche nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, se le condizioni del mare non fossero state proibitive. Inoltre, tutto ciò avviene in un tratto di mare in cui, tendenzialmente, non circolano le ONG, a riprova del fatto che non sono le navi umanitarie ad attirare le partenze.
Non convince, perciò, la comunicazione semplificatoria da parte delle diverse componenti dell’attuale governo italiano che, nei mesi, hanno parlato di “blocco navale” e di “carico residuale”, fino a giungere al “decreto ONG”, alla “vocazione alle partenze” e alle (poche) parole della Presidente del Consiglio Meloni, che ha parlato di “situazione semplice nella sua drammaticità”, non essendo, a suo dire, arrivato nessun allarme da Frontex.
Al contempo, appaiono insufficienti i messaggi di cordoglio da parte dei vertici dell’Unione europea: Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, si è detta “profondamente addolorata”; Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, invece, si è definita “arrabbiata e affranta”. Ma dalle parole ai fatti il passo è tutt’altro che breve. Le azioni dell’UE sul tema dell’immigrazione rimangono troppo deboli. Il “Patto europeo su migrazione e asilo” e il più recente “Piano d’azione per il mediterraneo” non migliorano le possibilità di ricerca e salvataggio in mare; i finanziamenti e gli accordi con paesi di partenza come Libia e Turchia, poi, non hanno dato gli effetti sperati. Nulla di tutto questo, perciò, avrebbe potuto evitare la strage avvenuta sulla costa crotonese.
Al contrario, la risposta della cittadinanza calabrese è stata immediatamente forte e decisa, di supporto, sostegno ai sopravvissuti e al contempo di condanna e sdegno per il mancato intervento in mare. Ma il rischio è che questa apparente spinta propulsiva si esaurisca in breve tempo, lasciando spazio ad uno stato di indifferenza, silenzio e inerzia. Troppo spesso, infatti, il numero crescente di morti in mare lungo i confini europei non ha destato le necessarie forme di lutto e riconoscimento, scatenando quella che Mark Fisher definisce “impotenza riflessiva”, ossia la consapevolezza, al contempo, sia della gravità di una certa situazione sia della propria incapacità di modificarla.
Alla luce di ciò, i primi passi da compiere potrebbero essere interrompere quei meccanismi di rappresentazione delle migrazioni come una sorta di massa informe e ingestibile, osservandone più a fondo le specificità e le differenze, fermando la criminalizzazione dei canali di soccorso esistenti e ampliando, piuttosto, i canali d’accesso legali. In fondo, a migrare – o a tentare di farlo – sono persone, uomini, donne e bambini con un’identità, mosse da un sentimento, su tutti: non la disperazione, ma la speranza.
Quella speranza che, citando ancora Mark Fisher, ci convinca che “da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile”.