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“Decostruire una visione di Catanzaro illusoria ma possibile”: Fabio Bix al March di Catanzaro

Il March, Museo archeologico di Catanzaro, ha riaperto i battenti con la mostra “L’illusione e il tempo” del fotografo e scultore bresciano Fabio Bix. La mostra, aperta al pubblico fino al 12 dicembre, è a cura di Chiara Candellone Sticca, con la partecipazione nella realizzazione di 4Culture, il contributo della Regione Calabria e il patrocinio della Provincia di Catanzaro e dell’assessorato alla Cultura del Comune di Catanzaro. Noi di Non abbiamo incontrato l’artista Fabio Bix.

Intervista a Fabio Bix: l’artista della mostra al March di Catanzaro “L’illusione non ha tempo”

Artista poliedrico e versatile, ma quando nasce Fabio Bix come artista visuale e cosa la porta ad avvicinarsi alle arti visive?

Nasco – in ambito creativo – all’età in cui Cristo moriva. Nel 2002 ho pubblicato “Vietato parlare al conducente”, il cui l’io narrante principale era sbarazzino e irriverente, ma c’era la partecipazione di Walter Ego, ossia l’alter ego più intimista e riflessivo. Nel secondo libro mi ero già scisso in 7: un gruppo di amici accomunati dalla passione per la scrittura e dal contenere, nel proprio nome, la lettera X. Insomma già da subito la scrittura faticava a contenermi. A fine 2007 non mi veniva più da scrivere, ma la necessità di esprimermi era ancora esplosiva. Quindi presi delle scarpe e iniziai a sventrarle: ci scoprii dei volti. Da lì il passaggio all’arte visiva (la fase delle Shoes Art). Successivamente ho usato le carte da poker (serie c’Arte da gioco), la pastasciutta (serie Pasta-Asciutta) e l’utilizzo della fotografia, dapprima baciando per un anno i marciapiedi (il progetto VOLOARASO) e ora, da 3 anni, Omnia Alia Sunt, il progetto delle statue effimere che ho portato – o mi ha portato – a Catanzaro.

Ripercorrendo le sue opere, e tenendo conto di un’autoironia direi senz’altro necessaria nel mondo artistico, in quale serie si riconosce maggiormente e come mai?

Non è la mia preferita, ma a ben riassumermi, forse, è la serie Pasta-Asciutta. Ossia: io non so cucinare – infatti mi era scaduta la pasta – e non so disegnare; in quella serie ho cucinato con la pasta i disegni che a matita non saprei fare. Ciò ben esprime quel che faccio: scardino concetti, limiti e schemi mentali. Quelli bravi a cucinare mi dicono che la cucina è arte ed essendo creativo non posso non saper cucinare. Se così fosse, ogni bravo cuoco dovrebbe saper cucinare scarpe, spilli, fruste o bancali e farne arte? Ma questo è un altro discorso…

Per quanto riguarda la fotografia, il suo modo di approcciarsi ad essa nelle ultime opere, in cui la dicotomia tra realtà e finzione non è più così netta, mi riconduce a lei l’ironia e il modo di giocare con le immagini di Joan Fontcuberta, tra i tanti sperimentatori. C’è qualche riferimento alla sua arte?

Confesso: non lo conosco. Ma probabile mi abbia influenzato anche lui. Siamo tutti connessi. Non mi riferisco a nulla di cosmico o spirituale. Ciò avviene nei modi più semplici o blasfemi. La pubblicità, ad esempio. Chi non conosca la frammentazione del linguaggio scritto perpetrata dai Futuristi ma abbia visto la pubblicità del Crodino (di qualche anno fa), ha implementato futurismo ignorandolo. Magari sono un fondamentalista Fontcubertano e manco lo so.

Com’è arrivato a questa sintesi e immediatezza dell’immagine?

Omnia Alia Sunt – il progetto delle statue realizzate coi fazzoletti – “discende” dal progetto VOLOARASO. Nella cosmogonia di elementi figurativi scorti negli scarti, molti ven’erano apparsi – come fantasmi – da fazzoletti di carta. Fra un progetto e l’altro passarono 5 anni in cui feci tutt’altro. Non saprei spiegare come funzionano le sinapsi e le connessioni di questo tipo. So che in qualche modo avvengono. Con l’ultimo progetto ho alzato lo sguardo, dai marciapiedi al cielo. Questa è sia un’azione fisica che metaforica. L’idea l’ho avuta tre anni fa, ma potrei dire sia un’intuizione lunga cinquant’anni.Non so se ho risposto alla sua domanda o a un’altra… La risposta precisa alla sua precisa domanda potrebbe essere: non lo so.

Per quanto riguarda la definizione di caso, quanto pensa possa incidere la casualità nel fare e nel sentire artistico?

È un aspetto fondamentale. Soprattutto nell’ultimo progetto, la componente legata al caso ha una incidenza notevole. Io non so mai che statua verrà nella foto. Anzi, non so nemmeno se verrà. Quelle che vedete nelle mostre sono le risultanti del setaccio di molteplici tentativi. Io veicolo il caso, in una sorta di processo alchemico di cui conosco giusto 3 o 4 ingredienti, il resto è affidato al caso. E quando accade quello che definisco il “miracolo” – ossia quando al computer, fra le centinaia di scatti che inizio a postprodurre esce quello in cui tutto funziona – sono il primo a subire la meraviglia, osservando una statua che io non avrei mai saputo fare.

Riguardo la mostra a Catanzaro. Come e quando si è sviluppata “L’illusione e il tempo”?

Avevo già effettuato le tappe di New York, Parigi, Gerusalemme, Roma, Venezia, quindi il mio lavoro era già visibile, esisteva. La curatrice Chiara Candellone Sticca l’ha proposto ad Andrea Perrotta e Ilaria Sergi della Indoor Contemporary, che l’hanno molto apprezzato e proposto a loro volta a Simona Cristofaro e Antonio Vatrano della 4culture, che gestiscono il MARCH di Catanzaro. Si è ritenuto fosse il lavoro idoneo a invadere il museo più antico della Calabria, cioè ad abbracciare il tempo. E a decostruire la visione di una Catanzaro intrisa di stereotipi per mostrarne una diversa, illusoria ma reale in quanto possibile. E i primi a dover abbattere gli stereotipi su voi stessi siete probabilmente voi catanzaresi, no?…