Macello è il nuovo libro dello scrittore crotonese Maurizio Fiorino. Classe 1984, ha studiato tra Bologna e New York dove ha avuto la possibilità di esporre in diverse gallerie statunitensi e frequentare gli ambienti artistici newyorchesi per quasi un decennio. Nel 2014 ha esordito con il romanzo “Amodio” che racconta il ritorno di un giovane nella sua amata Crotone, e “Fondo Gesù”, storia di un’amicizia di due ragazzi che vivono in quartiere degradato, appunto, Fondo Gesù. Con l’ultimo romanzo Fiorino chiude questa trilogia con una storia che non si ferma solo alla giovinezza del personaggio, ma lo segue fino all’età adulta in un percorso fatto di desideri inespressi, silenzi e assenze.
Nella tua biografia sulla quarta di copertina del tuo libro c’è scritto “giovinezza turbolenta”…
Sono nato e cresciuto a Crotone e diciamo che è una città molto particolare, nel senso che, se sei “diverso”, o meglio, anche solo se ti senti diverso e hai bisogno di esprimere la tua diversità, sei un po’ mal visto. Io facevo il cubista, andavo in giro vestito di pelle nera, un po’ dark diciamo, però non sono mai stato uno di quelli che vestendosi in maniera particolare, eccentrica, stava poi isolato o rinchiuso, ed è per questo che mi ritrovavo a scontrarmi sempre con il contesto in cui vivevo. Per me è stata una guerra stare a Crotone perché io non provavo minimamente calmarmi e gli altri non mollavano la presa. Poi ho avuto anche un percorso scolastico e universitario un po’ travagliato per cui non mi sono mai laureato e ho cambiato quattro facoltà diverse in tre anni…Ma poi, secondo me, noi calabresi siamo tutti abbastanza turbolenti…
Il libro è un romanzo di formazione che narra la storia di un omosessuale che vive in un paese del Sud. È un’idea che nasce dal bisogno di raccontarsi in qualche modo?
Nasce da un’esigenza di voler raccontare una storia. L’ho fatto per tanti anni con la fotografia, poi mi sono reso conto che la fotografia avesse in qualche modo dei limiti nel raccontare una storia rispetto alla scrittura. Poi credo che per ogni artista/scrittore sia inevitabile raccontarsi attraverso la propria arte.
Il “disagio” di un omosessuale che vive al Sud, inteso come persona non accettata e per cui c’è il continuo sentirsi fuori luogo, fuori contesto, è ancora così secondo te?
Ho deciso di non ambientare questo romanzo in Calabria perché appunto volevo uscire fuori dal cliché che al Sud ci sia questo stereotipo. Secondo me oggi non c’è questo divario di mentalità tra Nord e Sud, anzi. Se uno pensa ai femminielli di Napoli o, ad esempio, anche a Crotone ci sono delle persone che si travestono da donna e camminano nel centro liberamente senza che nessuno gli dia fastidio, ti fa capire che questo mondo antico, corrotto – inteso corrotto dall’informazione che pone questo cliché – non esiste e non è assolutamente così. Le storie di persone che vivono con “disagio” ci sono in qualsiasi parte del mondo. Basta leggere il New York Times o Le Figarò. Fa molto comodo a volte dire che noi del Sud siamo più arretrati, ma non è così.
È per questo che hai voluto ambientare il libro negli anni ’70?
Il libro in sé parla di assenze e mi piaceva molto l’idea del “paese fantasma”. Cioè il concetto che Biagio, il protagonista, sia cresciuto in un paese che poi diventa un paese da cui scappa, per andare altrove e che in seguito ad alluvioni, come spesso accade, sparisce. Dato che è un romanzo di formazione in cui il racconto segue il protagonista fino all’età adulta, dunque fino ad oggi, l’ambientazione più giusta era quella degli anni ’70.
Nel libro ci sono stereotipi maschili e femminili…
Sì, per me è stato per lo più rispettare il contesto e i personaggi per cui non ho voluto pulire il linguaggio ma era invece necessario rimarcare l’attenzione sui loro atteggiamenti proprio per renderli più credibili nel contesto.
In questa storia di contrasto tra padre e figlio e del figlio che scappa, se come in ogni storia c’è qualcuno che alla fine si salva, qui chi è che lo fa?
Si salvano tutti ma non si salva nessuno. Non solo Biagio scappa, ma anche il padre è scappato e non si sa dove sia, che fine abbia fatto e se ritornerà. In questa storia la fine non è detta e, in entrambi i casi, non sappiamo come sia andata a finire. Forse le storie non devono avere per forza una fine. Devono essere semplicemente raccontate.
Hai già un nuovo libro a cui stai pensando?
Ho iniziato a scrivere un romanzo esattamente 9 anni fa quando vivevo a New York ma che ho interrotto e poi ripreso milioni di volte. È un libro che sto scrivendo ragionando in inglese ma parlando in italiano cercando un linguaggio totalmente diverso perché vuole raccontare la nostra mediterraneità ambientata a New York e non voglio assolutamente cadere nel cliché dell’uomo del Sud a New York.
Sono già curiosa di leggerlo…
Sono curioso anche io.