Cinque vecchi amici. Cinque vite, brutalmente spezzate nello stesso punto e quindi ugualmente irrisolte, forse ancora salvabili forse per sempre perdute. Eravamo bambini – prodotto da Minerva Pictures e Wildside, in collaborazione con Vision Distribution e Sky – è la storia dolorosa di una vendetta e di un riscatto collettivi, un noir dal mood accattivante in cui il mistero essenziale dell’intreccio declina nella scelta consapevole di un contesto altrettanto criptico, prismatico, in grado di enfatizzare i dualismi e le tensioni che attraversano e animano la trama.
Articolandosi su tre diversi piani temporali, la vicenda narra del ritorno a casa di un gruppo di giovani adulti e del bisogno comune di fare i conti con un evento traumatico che vent’anni prima li ha coinvolti, macchiandone l’infanzia idilliaca e ostacolando in ciascuno un sano processo di maturazione. Pertanto, la narrazione si è collocata in uno spazio-chiave, non solo “fisico”, che potesse rappresentare in maniera quanto più possibile idonea e coerente l’enigma dei fatti e gli stati emotivi dei protagonisti: la Calabria è il luogo individuato come custode della memoria e, nella sua configurazione affascinante e ambigua, si fa qui specchio di pulsioni umane contrapposte e dei conflitti in gioco. Tuttavia, si tratta di un’ambientazione ideale, e laddove si scopre che il lungometraggio di Marco Martani non è stato davvero girato sulla costa calabrese (nel paesino, citato in qualche scena, di San Severino), la visione stimola un interesse maggiore a scovare negli scorci di un paesaggio falsato l’immagine realistica del territorio, e soprattutto ad interrogarsi analiticamente sull’efficacia e il senso di una tale operazione.
Guardando il film, lo spettatore ricostruisce pian piano gli avvenimenti e si addentra in una situazione drammatica che, grazie all’uso calibrato della suspense e ad una studiata differenziazione cromatica che segnala i livelli narrativi veicolando contemporaneamente significati nascosti, non presenta grossi problemi di credibilità. La prova attoriale può dirsi superata se non fosse per l’evidenza delle variazioni dialettali che si riscontrano tra gli interpreti, e la sceneggiatura regge pur senza approfondire il vissuto dei personaggi dall’abbandono del paese d’origine al momento in cui decidono di tornarci.
Di fotogramma in fotogramma, sequenza dopo sequenza, l’attenzione e la curiosità dello sguardo esterno non possono però tralasciare il “perché” dello sfondo fittizio e il modo in cui emerge il valore metaforico di una regione che di fatto non è quella immaginata. Indipendentemente dalle esigenze e dalle dinamiche produttive che non conosciamo (e per cui le riprese sono state realizzate nei comuni basso-laziali di Formia, Gaeta e Minturno), il gap dell’ambientazione non intacca il principio della verosimiglianza e la regia sa rendere comunque manifesto il ruolo simbolico dell’area geografica in questione. In Eravamo bambini la Calabria è infatti, con grande sorpresa, una presenza costante e reale, ma mai esasperata. La cura fotogenica, il rifiuto di inquadrature “da cartolina” a vantaggio di tagli e movimenti di macchina volti ad esaltare dall’inizio alla fine il tratto ansiogeno e bipolare del racconto, si rivelano espedienti “vincenti” e contribuiscono a ricreare il mondo difficile e contraddittorio dell’azione: quella dimensione di struggente bellezza e spaventosa claustrofobia che, come la “madre-coccodrillo” della psicoanalisi contemporanea, ha forgiato la personalità e compromesso pericolosamente la vita dei suoi figli.
Nell’incipit in medias res assistiamo all’arresto di “Cacasotto” (Francesco Russo), un innocuo postino colto in flagrante dai carabinieri mentre si aggira con un coltello in mano nel bosco fitto che circonda la villa dell’Onorevole Rizzo (Massimo Popolizio), rievocando subito l’atmosfera sinistra e i versanti montani di certe zone calabre. Eppure, le peculiarità del territorio non si ritrovano esclusivamente nella cupezza delle location appartate, nella desolazione delle piazze, dei corridoi asettici e labirintici in interno o dei vicoli deserti in cui il tempo sembra essersi ormai fermato da un po’. Nell’adattamento cinematografico del monologo teatrale Zero di Massimiliano Bruno, la Calabria vive innanzitutto nel respiro mozzato e nella frattura di ogni personaggio in crisi, nella coesistenza di bene e male, di luce ed ombra, di colpa e innocenza, in un’unica entità. Il viaggio finalizzato alla risoluzione “a tutti i costi” del vuoto esistenziale che l’esperienza antica del trauma ha causato, consiste perciò in un percorso interiore che, se da un lato incoraggia una riflessione sull’ambivalenza dell’essere umano, in parallelo svela la natura oscura di una terra governata, nella realtà al di qua dello schermo, da leggi antagoniste e inconciliabili: civilizzata e selvaggia, ospitale e nemica.
Nel film, i personaggi presentano tutti un profilo tragico e sono mossi da desideri rivali, scissi tra la spinta a liberarsi del passato semplicemente accettandolo e l’impulso mortifero a sistemare le cose col sangue, rivendicando cioè una furia animale analoga a quella che, quando erano bambini, li aveva condannati all’infelicità. Gianluca (Alessio Lapice) è un celerino violento. Margherita (Lucrezia Guidone) scongiura l’inquietudine con del tristissimo sesso occasionale ed è incapace di aiutare il fratello minore e tossicodipendente Andrea (Romano Reggiani). Walter (Lorenzo Richelmy) è un rapper di discreto successo schiacciato dal peso di un’esistenza disastrata nonché di un rapporto complesso con la figlia. Infine Peppino (Giancarlo Commare), vittima di un padre padrone e anaffettivo che ha “comprato” il suo silenzio, rischia di seguire il medesimo, indegno, destino.
Ai momenti di distensione sanciti dal ricordo delle estati trascorse al mare o dal piacere di rincontrarsi, si accompagna la crudeltà di un potere malavitoso ben radicato, che avvelena l’aria, sporca lo sguardo e che, oggi come ieri, ha possibilità di trionfare e culmina nel crimine. Tra dubbi e ripensamenti, il gruppo decide di andare fino in fondo e di uccidere l’uomo artefice della mattanza dei genitori, avvenuta sotto ai loro occhi per un raggiro sciocco e sfortunatamente fallito di cui non erano a conoscenza. Lo scenario calabrese, dunque, è funzionale al racconto di una storia in cui il confine tra salvezza e distruzione è labile, e martire e carnefice a un tratto si assomigliano. Beata e maledetta, incontaminata e tossica, la Calabria condensa in sé le caratteristiche fondamentali della messinscena e dei personaggi, ed è un elemento di forza imprescindibile.
L’epilogo conferma difatti questa lettura non azzerando le tensioni, bensì rilanciandole perché essenziali e nella realtà insopprimibili. I nuovi assassini si preparano a lasciare il paese a bordo di un’auto guidata dal figlio del vecchio aguzzino appena ucciso, le cui intenzioni restano inespresse. Le ultime immagini non descrivono una conclusione edificante, ma sono fedeli a ciò che è successo e che per mezzo del film si è voluto dire. Il volto contratto e serio di Peppino, la durezza delle parole pronunciate, suscitano presentimenti, timori e domande che non trovano alcuna risposta. Non si sa quale istinto rideterminerà le sorti dei sopravvissuti, se il buono dominerà il cattivo o viceversa. L’eccitazione thriller è ancora altissima e ad ogni modo va bene, è giusto così.