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Cos’è il non finito calabrese?

“I campi di sulla non ci sono più, la campagna è cosparsa di schizzi di cemento disarmonici, ognicasa ha una sua forma, un colore, un’altezza, un grado di non finito che si spartiscono il paesaggio senza gerarchie. Ognuno ha fatto quello che ha voluto […]”.

In queste soli tre righe, possiamo iniziare già a comprendere il disturbante impatto di quello oggi chiamato come Non Finito o Incompiuto calabrese. Le righe sono del libro Le Magredi di Gioacchino Criaco, scrittore calabrese che nelle sue opere racconta l’Aspromonte, la terra amara, che spesso siamo soliti a pensare come una terra selvaggia, incontaminata, priva di ogni forma umana, dove l’uomo non si sia mai insediato, dove non abbia costruito. Ma tra questi colli di una foresta maledetta, compaiono “schizzi di cemento”di ecomostri in costruzione, case disuguali senza con facciate senza intonaco, mattoni in vista e senza finestre, pilastri e strade senza asfalto: eccolo, il Non Finito. 

Foto di Angelo Maggio

Cos’è il non finito?

Ma cos’è questo Non Finito? Da dove nasce? Cosa lo ha connotato? Perché? Le prime tracce di questi “schizzi di cemento” possiamo attribuirli all’inizio degli anni’60 quando la politica italiana inizia a riconoscere una profonda valenza nelle parole “progresso” e “futuro” dopo il risanamento delle ferite post-belliche. Questa ricostruzione di un paese, di un intera nazione, si traduce in un concetto meno esteso di costruzione e riqualificazione: l’abusivismo edilizio. L’universo di questo sistema di autoprogettazione si estende per tutta la penisola italiana ma al Sud, dove lo Stato italiano non è riuscito spesso ad arrivare, diventa invasivo con un eccesso di costruzioni iniziate in maniera spasmodica e irrefrenabile. La frenesia della corsa verso il futuro porta ad un sentimento collettivo di spinta verso il progresso, di una ricollocazione di sé che comprende spesso il fenomeno dell’autocostruzione, così, “dove non arriva lo Stato, arrivo io”. E che quindi, il Non finito, non può essere connotato solo alle opere pubbliche, ma un fenomeno sociale più profondo fatto di opere private, industrie e fabbriche iniziate e mai finite, case di famiglie, gente comune, che ha messo anno dopo anno mattoni e pilastri, cemento e ferri, con lo scopo forse di dare un tetto da vivere ai propri figli, un futuro alle nuove generazioni, ma di cui siamo ancora in attesa.

Foto di Angelo Maggio

Il non finito calabrese

Dai numeri riportati dal portale tecnico lavoripubblici.itle opere pubbliche incompiute in Italia sono 546 e serviranno quasi 2 miliardi di euro per completarle. E questi dati non tengono conto dell’enorme quantità di opere private non finite. Se facciamo un riferimento alla nostra regione, dagli ultimi dati emersi nel 2022 della Silvi Costruzioni Edili, sembra che siano 20 le opere incompiute pubbliche calabresi, aggiudicando alla Calabria l’ultimo posto sul podio delle regioni del Sud per opere pubbliche incompiute (Sicilia 138; Sardegna 47; Puglia 27; Lazio 26). Eppure, basta percorrere in automobile la nostra regione da nord a sud e renderci conto di pilastri che portano al cielo, case senza facciate in cui c’è da chiedersi se qualcuno ci viva o no, e le distese di cemento di fabbricati immensi come macchie grigie su sfondi alberati, per capire che qui il problema non sia solo l’impotenza dei Governo, ma la tendenza sociale del “dove non arriva lo Stato, arrivo io”. Un aspetto identitario, paesaggistico e sociale, che si estende a macchia d’olio. Luoghi che siamo abituati a vedere come consueti, come facenti parte di uno spazio, senza porci domande del perché siano lì, chi li abbia costruiti e chi li abbia abbandonati, lasciati lì, incompiuti. 

“Stairway to the heaven”. Foto di Gianluca Meduri

Come il progetto avviato negli anni ’80 a Stignano, un complesso adibito a residence progettato con regolare concessione edilizia ma di cui la costruzione fu interrotta in seguito alla legge Galasso che modificò le distanza dal mare, imponendo dei vincoli paesaggistici. Così, quarant’anni dopo, in maniera paradossale, questo complesso non finito fa parte a tutti gli effetti del nostro paesaggio, enunciato spesso nella stampa internazionale, come sulla rivista francese Geo definendolo uno degli “Ecomostri di calabria”. Un altro ecomostro calabrese è il vecchio pontile di Siderno, sulla spiaggia di Pantanizzi, lungo 180 m, mai terminato e messo in funzione. Nel 2019 venne utilizzato dalla compagnia aerea Easy Jet per una campagna promozionale . <<Inattivo, ma mantiene un suo fascino>>, scrissero. Infine, quella denominata dal New York Times “Stairway to the heaven”, la scala mobile tra le colline di Roseto Capo Spulico rivolta verso il cielo e che avrebbe dovuto collegare la spiaggia ad un resort, e che oggi rappresenta “l’incuria che si fa creazione”, di cui si rimane affascinati. 

Il non finito calabrese: un nuovo stile artistico?

Se non tutto il male vien per nuocere, il fascino emanato da questi stabilimenti non finiti, dalle opere incompiute, assume oggi una nuova connotazione, quello di uno stile artistico che viene studiato nelle università, fotografato dai maggiori esperti, sviscerato da antropologi e architetti ma anche da esperti di estetica, filosofia, o arti visive. L'”Incompiuto, la nascita di uno stile” è stato il primo progetto provocatorio sulla rivalutazione del non finito lanciato da Alterazioni video nel 2017. Una rivalutazione artistica in cui non ci si chiede se questo sia brutto o bello a fini prettamente estetici e se questa possa ora considerarsi arte, ma: “Cosa farne di questo patrimonio? Rilanciare la piccola impresa italiana partendo dalle demolizioni? Riconvertire le opere incompiute in qualcosa di utile, disconoscendo la non-funzionalità per la quale erano state inizialmente create? Lasciarle dove sono state fino a ora, fingendo che non esistano fino a quando non ne venga costruita un’altra? Storicizzando lo stile Incompiuto come viene fatto con qualsiasi elemento del patrimonio storico?”.

Cosa farne, ora, di questo non finito?