Nella Calabria rurale degli anni ‘40, la Seconda Guerra Mondiale è appena finita. Tutto sembra essere rimasto uguale, eppure tutto è da ricostruire. La vita è lenta, ordinaria e ancora regolata dalle leggi ataviche e coercitive del sistema patriarcale. Ma il fermento sociale derivato dal recente conflitto va traducendosi, oltre che nella progettazione politica di una nuova e più libera Italia, anche nel progressivo sviluppo di una coscienza individuale maggiormente consapevole e, quindi, volitiva.
Il mio posto è qui – scritto e diretto da Daniela Porto e Cristiano Bortone, ispirato al romanzo omonimo della stessa autrice e da oggi in sala – racconta sul grande schermo proprio questo tratto duplice della rivoluzione post-bellica, e fa della storia “piccola”, singolare e privata, dei suoi protagonisti il traino di una narrazione tesa a leggere e restituire il peso della Storia “grande”, collettiva e universalmente conosciuta, che resta sullo sfondo.
Al cuore del film vi è infatti la dolorosa lotta per l’emancipazione di due anime, diverse per età e vissuto, però affini; allo stesso modo discriminate dal gruppo sociale d’appartenenza perché restìe ad obbedire ai dettami culturali dell’epoca. Marta (Ludovica Martino) è una ragazza-madre colpevole di aver messo al mondo un figlio aggirando, per amore di un coetaneo poi morto al fronte, il vincolo del matrimonio. Lorenzo (Marco Leonardi) è il sacrestano omosessuale del parroco, malvisto da tutti per la scelta di un orientamento sessuale fuori norma, che sfugge alla mediocrità del pensiero comune e minaccia, al pari del desiderio irruento di lei, di sovvertire gli equilibri della piatta vita comunitaria.
L’incontro tra i due costituisce dunque il motore dell’intreccio e soprattutto innesca un processo evolutivo comprensivo di una spinta alla rivalsa doppia, binaria, che avrà effetti detonanti sull’esistenza dell’una e dell’altro. Senza richiederne il consenso, la famiglia di Marta decide all’improvviso di prometterla in moglie a un uomo che lei non conosce nemmeno, un vedovo molto più anziano, già padre di due bambine e sostenitore convinto della supremazia maschile. Così, la ragazza inizia a frequentare quotidianamente la Chiesa e lì stringe, a poco a poco, una scomoda amicizia con Lorenzo, al quale in paese è conferita la sola autorità di organizzare le nozze di chiunque e preparare adeguatamente le giovani donne alla realtà coniugale.
Giorno dopo giorno, e superata la diffidenza iniziale, tra i personaggi s’instaura un legame profondo fondato sulla comprensione reciproca, sul riconoscimento empatico di ferite simili, nonché sulla condivisione del bisogno di evadere dall’ambiente angusto in cui si trovano, bisogno che nel riflesso del corpo di un altro diventa impellente ed acquisisce il valore di un’urgenza. La preparazione al matrimonio e al ruolo cui è stata obbligata per Marta cambia di significato, e si trasforma in un addestramento alla vita esente da condizionamenti e imposizioni, autosufficiente e responsabile di se stessa. In una parola, moderna. Ogni appuntamento è possibilità, e via via si accende la speranza fiduciosa di un riscatto possibile. Con coraggio e vestita di una dignità che commuove, la protagonista rifiuta di continuare a subire le volontà degli altri, assume il controllo, diventa padrona del proprio destino.
Grazie e insieme a Lorenzo, spazia in spazi differenti, sia reali che metaforici. In motocicletta o a piedi, esce fuori dall’area confinata del paesello, entrando in contatto con un mondo alternativo e progressista, fatto di persone ribelli e modi di vivere audaci. Partecipa ad una festa testimoniando, attraverso una porticina socchiusa, la passione tra due sconosciuti omosessuali. In una sede vicina del PCI, impara a dattilografare insieme ad alcune compagne e studia in vista di un concorso che potrebbe offrirle lo sbocco di un lavoro in futuro. A un carnevale di piazza rompe la regola e appoggia l’idea dell’amico di travestirsi da principe.
Se nella parte del film antecedente all’avvio della trasformazione, il personaggio veniva settato in un contesto prevalentemente chiuso (la casa buia dei suoi, la sacrestia), o stretto e “murato” (i vicoli di Gerace, le piazzette sì un po’ più ampie ma comunque quadrate dalle costruzioni antiche intorno), a seguire si assiste ad una metamorfosi che investe straordinariamente anche il paesaggio.
Il passo di Marta si allunga nell’“oltre” e, al contempo, il territorio si allarga in un’immagine che respira e la accoglie. Il richiamo all’asfissia che si aveva prima, quando la ragazza badava bene a contenersi in un’area angusta e circoscritta, viene da un certo momento in poi sostituito dalla percezione di una spontanea armonia tra soggetto e ambiente. Il corpicino esile di Marta saggia in tutti i sensi un confine, e più (si) scopre, più si immerge nella maestosità dei luoghi che attraversa, in una natura complice che ne sostiene l’emancipazione e le consente di intraprendere un viaggio.
Il mio posto è qui deve la sua forza alla sensibilità tanto delicata quanto onesta con cui Porto e Bortone hanno saputo filmare gli eventi, ma anche al modo suggestivo e trascinante in cui il racconto letteralmente si schiude, di pari passo all’avvenire del personaggio, e forzando insieme ai limiti della sua esperienza nel mondo, quelli del mondo stesso.
La Calabria è il posto che nel finale Marta abbandonerà salendo su una corriera diretta al nord, dove sosterrà l’esame e probabilmente troverà fortuna. Tuttavia, è una terra che fino allo snodo dell’epilogo si impegna nel risparmiarla dagli occhi indiscreti, dagli ostacoli che potrebbero mandare all’aria il proposito di cambiare e far fallire la sua scommessa nel progetto, e nel diritto, di essere donna. Come Lorenzo ne custodisce il segreto. La aiuta a scrivere il tempo che l’aspetta prima di lasciarla andare, pronta, in direzione di quel mare – simbolo di apertura e occasione di un altrove – sempre sognato e mai raggiunto.
La rivendicazione dell’indipendenza risulta nel film estremamente potente, perché potente è la sua componente istintuale, sanguigna. È una rivendicazione fisica, ancor prima di essere ideologica, in una prospettiva che coinvolge l’atteggiamento individuale secondo due differenti accezioni. Fisico è anzitutto il peccato da cui si origina il pregiudizio; fisica è cioè la colpa che di fatto, tanto per Marta quanto per Lorenzo, concerne il sesso.
Ma questo “libertinaggio al di là della morale” è fisico anche alla luce del dinamismo che provoca, e consiste nel desiderio di addentrarsi in luoghi preclusi, nella sperimentazione di una realtà vietata e considerata inaccessibile. Marta ha concepito il figlio Michelangelo in un campo che eccede i margini, lontano dal centro del paese. E non a caso, il suo ritorno in uno scenario analogo avviene quando decide ancora una volta di ascoltarsi, di seguire l’istinto, cedendo alla voglia incontenibile e contemporanea di vivere un’esistenza che abbia significato.
All’alba dell’agognato domani, Marta compie l’ultimo step in avanti. Incarna la rinascita di un femminile che, in faccia all’orizzonte e a un passo dalle elezioni del giugno ’46, vuole amare chi ama e lavora su di sé, per sé.