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“Accogliere la diversità è accettare di non poterla comprendere fino in fondo, senza sminuirla.”Intervista a Giovanni Carpanzano, autore del film Il Vuoto.

È ormai tutto pronto per il debutto al cinema de Il Vuoto, lungometraggio d’esordio del catanzarese Giovanni Carpanzano. L’attesa è finita e questa sera, alle 19.30, il Teatro Comunale ospiterà la prima proiezione pubblica del film, alla presenza del cast principale, della troupe e della stampa. Il film resterà in sala anche nei giorni successivi, dal 7 al 12 ottobre, con appuntamenti quotidiani in fascia pomeridiana e serale.

Prodotto da Indaco Film, Il Vuoto è una storia autobiografica dal forte potenziale emotivo, in cui il tono intimo rafforza e non intacca la capacità di solleticare un sentire comune. Amore, scoperta, dolore e perdita. Autodeterminazione e conquista di un posto nel mondo. Nel racconto confluiscono sentimenti universali ed esperienze reali, simili a stralci di un vissuto  anche nostro e facilmente condivisibili perché umani.

Tra gli attori, perlopiù emergenti, si contano diverse presenze calabresi. Da Gianluca Galati nel ruolo del protagonista Giorgio, a Kevin Di Sole, Maddalena Ascione, Paolo Mauro. Ad affiancarli, compaiono inoltre alcuni volti noti, come quello dell’attrice romana Valentina Persia, qui alle prese con il primo ruolo drammatico della sua carriera.

Insegnante, esperto di arti visive e uomo di teatro, Carpanzano ha raccontato sinceramente se stesso e, nella sublimazione artistica della sua storia, ha colto una straordinaria occasione di redenzione.

Il Vuoto è una storia d’amore, ma anche di ricerca di sé. Narra della relazionetormentatachecoinvolgeduegiovanie,altempostesso,delprocessodicostruzione di un’identità ancora incerta. Quali sono i sentimenti, le credenze, la visione che hai scelto di affidare al racconto e in che modo, seppur attingendo direttamente al tuo vissuto, pensi di averlo reso universale tanto da consentire a chiunque l’accesso emotivo al film?

Quando ho cominciato a scrivere ho pensato chiaramente alla mia storia, sono partito da quella che era stata la mia personale esperienza di vita. Pian piano, mentre scrivevo, mi sono però reso conto che quello che desideravo raccontare era in fondo un archetipo. Così, da una vicenda privata è scaturito un racconto che parla un po’ di chiunque, in cui ciascuno può identificarsi.

Il Vuoto è il film di un amore impossibile, e di fatto un amore può essere impossibile per diverse ragioni, a seconda delle circostanze. Il motivo dell’impossibilità, nel caso dei miei personaggi, è un motivo di natura socio-culturale. Giorgio e Marco combattono l’arretratezza di un “pensiero-limite”, stigmatizzante e fin troppo radicato nella comunità cui appartengono.

Ad ogni modo, gli ostacoli li si ritrova in qualsiasi altro contesto, perché l’ostacolo è quasi sempre un altro che ci giudica e di fronte al quale temiamo di mostrarci per ciò che siamo davvero. L’obiettivo ultimo del film è quindi questo: raccontare quanto può essere doloroso esprimere se stessi e la propria natura in unmondo “chiuso” e ostile nei confronti della diversità. Non è semplicemente la storia di Giovanni. È la storia di tutti quelli che hanno vissuto un amore impossibile.

Quanta lucidità richiede un lavoro autobiografico? A che distanza deve collocarsi,secondo te, un autore rispetto agli eventi? Credo che il desiderio di raccontarci nasca dall’esigenza di una rivalsa e della conquista di una nuova consapevolezza su qualcosa che in passato ci ha segnati; qualcosa che non vogliamo né possiamo liquidare come un ricordo “anonimo”. Pertanto, la rielaborazione artistica del privato rappresenta spesso l’occasione risolutiva (e definitiva) di un conflitto. Sei d’accordo? Com’è stato assistere da spettatore al film di cui sei anzitutto protagonista?

Bella domanda. Beh, penso che all’inizio sia opportuno collocarsi al centro del ciclone. La tempesta è vicina, ma non esattamente in quel punto. L’autore ha così modo di vedere tutto ciò che accade intorno a lui, di tenerlo sotto controllo, resta lucido. Se un autore si lasciasse completamente travolgere, il risultato del suo lavoro sarebbe un’opera autoreferenziale. Il suo bisogno di rivalsa verrebbe soddisfatto, potrebbe dire “ho ragione”, “ho avuto ragione io”, ma poi? 

Io credo che a rendere universale una storia sia la capacità di un autore di adottare una determinata prospettiva, quella che io solitamente definisco “quarta posizione”. La “quarta posizione” è un “Noi”. Io vedo gli altri e sono gli altri. Contemporaneamente sono “Io” e “Loro”, fluisce un’unica energia e ci coinvolge tutti. Porsi alla giusta distanza fa sì che ci si possa rendere conto del lascito della tempesta, in un momento della propria vita diverso, più maturo. Un’operazione del genere si rivela essenziale nel processo realizzativo di un film. Aiuta a non perdere mai la visione d’insieme, a non spostare troppo l’attenzione rispetto a quel che si vuole dire e, soprattutto, a lasciare andare.

Il Vuoto mi ha insegnato a lasciare andare, ha rappresentato una vera catarsi e si, ha risolto in maniera definitiva un conflitto. Quando nelle nostre vite qualcosa non va come speravamo, ci chiediamo continuamente “come sarebbe andata se…”, pensiamo a ciò che è stato, ma lo facciamo sempre dall’interno, da protagonisti diretti. Fare della tua storia e di un particolare evento un film significa invece “abbandonare” il proprio posto, ti dà l’opportunità di spogliarti del ruolo che avevi avuto in quella storia, nella realtà. Ti guardi da un’altra angolazione, sei dentro e fuori, sei tu e non sei più tu. Io ho donato la mia storia ad altre persone, e la mia storia non è più solo mia. Nell’atto di donare, nell’affidarla agli altri, di conseguenza mi sono liberato del suo peso. Oggi custodisco soltanto il valore degli insegnamenti che la ferita mi ha lasciato.

Il tema affrontato è un tema assolutamente attuale, capace di stimolare riflessioni nel pubblico di ogni età e al di là del limite imposto dagli stereotipi di genere. Che tipo di riscontro ti aspetti?

Eh… Qui il discorso è un po’ complesso. Complesso perché abbiamo avuto a che fare anzitutto con la censura, e io non sapevo neanche che ancora esistesse la censura! Abbiamo dovuto cedere alla richiesta dei bollini sulla locandina, e questo ti dà già un il

metro per fare le tue valutazioni o meglio, ti fa ben capire che c’è un problema di carattere istituzionale. Detto ciò, c’è da dire che le istituzioni non sono la società. La società è e rimane un’entità diversa.

Non mi aspetto che il film piaccia a tutti, ma francamente non è il riscontro a cui aspiro. Maurizio Ferraris diceva che l’opera d’arte deve porsi l’obiettivo di sconvolgere e io sono d’accordo. Non è importante che si dica “il film è bello” piuttosto che “guarda sti f***i!”, non m’importa che il pubblico esca dalla sala estasiato.

Per me, la cosa fondamentale è che il film riesca a stimolare una riflessione e a coinvolgere emotivamente gli spettatori. Il Vuoto emoziona, ti smuove qualcosa dentro. E un film che ti emoziona è un film che poi tendi a voler rivedere, che ti squarcia l’anima, e attraverso lo squarcio puoi accedere ad un oltre. Voglio che al mio pubblico accada questo e voglio che accada anzitutto al pubblico adulto.

I giovani oggi non avvertono la fluidità e la diversità come un problema. Sono molto più leggeri ed inclusivi. Gli adulti, al contrario, sono ancora ancorati al pregiudizio. Sono riluttanti e manifestano un certo “timore” davanti all’amore non tradizionalista. Tornando a quello che ci dicevamo prima, ognuno di noi conosce l’esperienza dell’impossibile, perciò non è necessario essere gay per guardare o apprezzare il film. Basta essere sensibili nel riconoscersi fragili e umani tanto quanto i personaggi che agiscono sullo schermo.

La società ci dice chi dobbiamo essere e cosa dobbiamo fare prima ancora che noi decidiamo chi vogliamo essere e cosa vogliamo fare. Il Vuoto è un film sull’affermazione dell’identità, e per identità si intende una qualsiasi identità. A dispetto di quello che vogliono farci credere e che urlano ogni giorno dai piani alti, l’identità non ha confini e non è qualcosa di prestabilito o sempre uguale. L’identità è fluida, e se siamo abbastanza intelligenti da riconoscerlo, le probabilità che il film abbia successo sono alte.

Il riconoscimento e l’affermazione della propria identità costituiscono una grande prova di coraggio e, soprattutto in contesti “piccoli”, reticenti al nuovo e al progresso, si accompagnano al disagio, al senso di colpa, al trauma del rifiuto. Qual è stata la parte più difficile della tua esperienza?

Io ho manifestato la mia omosessualità circa venticinque anni fa, e a quei tempi l’omosessualità era considerata un tabù. Non è stato facile. La mia identità comunque è un work in progress. È un processo iniziato tanto tempo fa e mai finito. Io non mi riconosco in un pronome, posso essere “bello”, “bella”, mi identifico tranquillamente in entrambi i generi.

La società mi definisce con la lettera “M” sui documenti, ok. Io so che non è quello ad identificarmi. Anche dal punto di vista estetico, non mi riconosco solo nella fisicità e negli abiti dell’uomo. In passato cercavo di omologarmi, volevo essere catalogato come il gay bello, muscoloso e figo. Ora sono convinto di volermi svincolare da ogni pretesa di categorizzazione. E se a me va di indossare vestiti non strettamente maschili, lo faccio. Devo dire che il film ha accelerato il processo di autoconsapevolezza. Per dare un messaggio devi averlo chiaro tu per primo.

Come definiresti l’atteggiamento sociale calabrese oggi? C’è, a tuo avviso, un’apertura maggiore?

Oggi si sente parlare di “accettazione”, di “normalizzazione”, concetti prima inammissibili nel linguaggio comune. Io tuttora credo che, benché se ne parli, non si sia raggiunta una piena e vera accettazione. Penso sia più onesto parlare di “sopportazione”, di un comportamento condiviso di facciata a sostegno della promozione ipocrita del principio di “libertà”. Non facciamo altro che raccontarci che “ognuno ha il diritto di essere quello che è”, ma in fin dei conti non abbiamo smesso di cucire addosso all’altro un’etichetta. L’accettazione è un’altra cosa, concerne la capacità di accogliere la diversità e di farsi andare bene il fatto di non poterla mai comprendere fino in fondo senza sminuirla.

La diversità non ci appartiene, ma non per questo dobbiamo considerarla come una devianza, come un virus pericoloso dal quale grazie a Dio siamo immuni. Forse, ci vorranno altri dieci anni per giungere ad un’accettazione concreta e probabilmente saranno i sedicenni e i diciottenni di oggi a spingere verso la normalizzazione delle differenze. Allo stato attuale, questi ragazzi non hanno voce in capitolo, non vengono considerati a tutti gli effetti parte integrante della società, però sono il nostro futuro, saranno i “grandi” di domani.

Nelle generazioni più giovani io vedo qualcosa che mi fa ben sperare, quell’“I don’t care” per il quale accettano più o meno tutto. Quando avevo la loro età, ricordo che dire “sono gay” era una sorta di dovere, un particolare da non tralasciare nel momento in cui c’era da presentarsi a qualcuno. Per loro, noto che non è un aspetto rilevante, che non definisce in alcun modo la persona. È bello. Poi comunque dipende dai contesti. In campo medico, per esempio, si rintracciano già vari segni di svecchiamento. Io e mio marito abbiamo accompagnato nostro figlio Enea a fare il vaccino e non ci è stato chiesto chi tra i due fosse il padre biologico, nessuno ci ha chiesto il certificato di adozione.

Siamo stati entrambi segnalati come padri del bambino. Stesso discorso vale per la scuola, dove le maestre sono chiamate a formare la società del futuro e guardano avanti, il loro sguardo è più arioso. Mettiamola così. Una parziale apertura c’è. Se prima si combatteva per la libertà ovunque, oggi non lo si fa proprio dappertutto. Ci sono luoghi in cui sento di respirare meglio. Non so se avrò modo di vivere in un mondo completamente libero, mio figlio credo e spero di si.

Torniamo al film. Cosa mi dici del set? Prima di essere un regista, tu sei un’insegnante, e dal contesto accademico trai perciò spontaneamente il metodo, la disciplina, quella cura e quella sensibilità al dettaglio che senza dubbio, durante le riprese, si saranno rivelate vantaggiose. Come descriveresti il tuo approccio e la preparazione degli attori? Su quali princìpi si è fondato il rapporto con loro?

Ho fondato il lavoro con gli attori sul principio della simbiosi. Ho chiesto a tutti, nessuno escluso, di mantenere il focus sul progetto. Abbiamo lavorato insieme assiduamente, fatto tante prove nei mesi precedenti al set. Tutti hanno dato tanto e i risultati si vedono. Con Gianluca e Kevin ho lavorato più che con gli altri. Gianluca aveva 535 battute (534, ne ho tolta una ed è ancora arrabbiato!), Kevin 350. Era necessario uno studio rigoroso e approfondito dei rispettivi personaggi, anche perché sono eterosessuali e per me era importante che la sintonia tra di loro, in scena, risultasse quanto più possibile naturale. Quanto agli altri, ripeto, tutti hanno dimostrato serietà e dedizione. Valentina Persia ha accolto con entusiasmo il primo ruolo drammatico della sua carriera e ci ha creduto sin da subito. È stato emozionante dirigere Margò Paciotti, che è stata la mia maestra di teatro e che mi ha insegnato tutto ciò che so. E sono contento poi, anche perché calabresi, di aver dato spazio a due ragazzi che seguo privatamente come “coach”, Tommaso Perri e Francesca Pecora.

In generale, l’esperienza del set è stata meravigliosa. C’è stato un grande lavoro di squadra. Con alcuni dei miei collaboratori è nata un’amicizia sincera tantoché li   ho coinvolti nei miei nuovi progetti. Penso che a tutti, stagisti e professionisti, sia stato riconosciuto l’apporto notevole dato al film. Sono grato ai miei studenti dell’Accademia ed ho voluto fortemente farli uscire fuori dall’aula. Nelle aule si impara tanto, ma sono anche zone protette che non ti preparano adeguatamente a quello che incontrerai dopo. A un certo punto devi buttarti nella mischia, interfacciarti con la realtà lavorativa perché è lì che ti metti alla prova, che scopri quanto vali. Tutti sono cresciuti a livello umano e professionale, affrontando conflitti e imparando a gestire l’emotività. I professionisti erano terrorizzati all’idea di lavorare con dei ragazzi senza esperienza, ma nel giro di due giorni si sono dovuti ricredere. L’Organizzatore generale mi ha guardato e mi ha detto “non è che per caso ne hai altri venti?”.

Nella realizzazione di un film, ci sono aspetti non trascurabili (narrativi e non) da cui, in un’ottica autoriale, sembrano derivare la sostanza e la potenza della storia. A quali elementi ascriveresti la forza de IlVuoto?

La forza del film è la sceneggiatura. Ho dato molto peso alla scrittura e mi sono battuto per una recitazione di qualità, volutamente teatrale. I critici ricercano ancora il Neorealismo in un film, ma il Neorealismo non può più esistere. Non può più esistere storicamente. Io ho fatto un film diverso, e l’unica domanda che mi pongo è “sono riuscito ad emozionare lo spettatore?”. Se ci sono riuscito, ho già vinto.

Non contano i premi, e i movimenti di macchina devono avere un senso prima di essere straordinari. Anche un’inquadratura stilisticamente perfetta perde di senso se il film non emoziona. Il lavoro sulla sceneggiatura e sui personaggi è stato funzionale a questo obiettivo. Con il Direttore della Fotografia, con il mio Aiuto Regista, abbiamo sempre fatto scelte ragionate e coerenti con ciò che dovevano esprimere, in una precisa scena, a livello emotivo. Ogni inquadratura del film ha un valore che si lega all’emotività del singolo fotogramma, non è puro virtuosismo.

Come accennato, la tua formazione è una formazione di stampo teatrale. Quando hai capito di essere pronto per il cinema? Pensi che le possibilità del mezzo cinematografico siano maggiori rispetto a quelle offerte dal teatro?

Ammetto che il passaggio al cinema mi spaventava un po’. Mi sono formato in teatro, per più di vent’anni ho sempre fatto teatro, avevo paura. Però è come se fosse stato il cinema a venire da me. Ho ricevuto la sua chiamata. La conoscenza ce l’avevo, ma non l’avevo mai messa in pratica.

Il cinema lo devi fare. Puoi studiare la grammatica, i suoi elementi essenziali, ma poi bisogna farlo fisicamente, sul campo. Io ho iniziato con dei cortometraggi, sia di finzione che documentari, fino a quando un giorno ho partorito l’idea di un lungometraggio. È successo in modo spontaneo, a lezione, mentre spiegavo ai miei studenti come scrivere di  sé. Ho usato quella storia da esempio, ma dopo averla raccontata mi sono detto “Cavolo, ho trovato la storia!”.La nostra vita è un contenitore di storie, basta scavare e troveremo qualcosa che vale la pena raccontare. 

Per quanto riguarda le possibilità del mezzo, credo che il mezzo cinematografico sia un’estensione del tuo corpo e dei tuoi sensi. Tutti i limiti che per anni ho riscontrato a teatro il cinema li ha abbattuti. Questo è il valore aggiunto del cinema. Puoi davvero fare qualsiasi cosa, realizzare ogni visione, anche la più stravagante. È magia.

Ora comincia quello che potremmo definire il “secondo tempo della vita del film”. L’opera inizia a girovagare libera e ad esporsi, in egual misura, a gratificazioni e pericoli. Non resta che aspettare e raccogliere i frutti dell’impegno e del talento seminati. Cosa farai adesso, quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Ho diversi progetti per il futuro. Sto lavorando ad un nuovo film, ad una serie, e porterò avanti nel frattempo la mia attività in ambito teatrale. Sono sempre operativo!

Continuerai a fare cinema e teatro in Calabria? Hai fiducia nel risveglio culturale delterritorio?

Non credo sia questa la primavera calabrese. Secondo me siamo ancora in autunno, forse in inverno. La Calabria ha dei problemi grossi da risolvere, uno tra tanti quello delle infrastrutture. Le difficoltà maggiori sul set derivavano proprio dalle condizioni penose delle strade, dai collegamenti inesistenti o troppo complicati. Alcuni posti erano davvero irraggiungibili. La strada è lunga, ma io sono qui e resto qui. Voglio restare qui. Credo al ciclo delle stagioni e farò il possibile affinché le cose possano continuano a cambiare e migliorare.